I CONSIGLI DI GIULIANO AMATO

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INES TABUSSO
00venerdì 6 gennaio 2006 00:01
LA STAMPA
5 gennaio 2005
Amato e l’etica
«Sì a un codice, la sinistra faccia il primo passo. Prodi ha ragione: la febbre non diventi falò»
di Gigi Padovani


Presidente Amato, cosa pensa dell’appello di Prodi su «La Stampa» per fissare confini precisi tra politica e economia, dopo lo scontro suscitato dai casi Unipol e Popolare Italiana?
«Prodi ha fatto bene a intervenire partendo da una “quota alta” in cui non ci si limita ai dettagli, ma con una visione d’insieme. Dei dettagli si occupa la Guardia di Finanza...».

E quindi?
«Come lui dice, cominciamo a distinguere fatti da opinioni, pettegolezzi da calunnie. In questo momento nel Paese vedo crescere una febbre, figlia probabilmente di questa società moralmente fragile della quale parla Prodi, che di giorno in giorno porta verso la ghigliottina e il grande falò su cui bruciare tutto e tutti, il mogano e la legna marcia».

Siamo al clima del ‘92?
«Le condizioni sono molto diverse rispetto ad allora. Eppure c’è chi mette sullo stesso piano chi ha commesso reati e chi non ne ha commessi, chi si è messo in tasca soldi e chi ha speso solo parole. Dobbiamo far cessare tutto ciò».

Come?
«E’ responsabilità di tutti, non soltanto della sinistra. C’è chi lo fa perché fa politica cavalcando le emozioni del populismo ed è naturalmente irresponsabile. Purtroppo però nel centrosinistra c’è chi diventa irresponsabile grazie a questa febbre: farebbe bene a prendersi un antipiretico».

Cosa vuole dire, presidente?
«C’è una profonda differenza tra noi e gli Stati Uniti. In quella società hanno l’abitudine di buttare le mele marce, nella loro profonda convinzione che la maggioranza siano sane. Nel nostro più fragile Paese questo esercizio può avere conseguenze devastanti. Negli Anni Novanta l’allarme fu lanciato da De Rita, quando si eliminava un leader dopo l’altro. E’ giusto togliere le mele marce, non abbattere tutto il frutteto».

Andiamo al concreto, senatore...
«I due sommi dirigenti dell’Unipol hanno chiaramente tenuto dei comportamenti disdicevoli e sono sotto giudizio. Non è questo il punto».

Consorte e Sacchetti fanno capo a un mondo cooperativo con solidi legami a sinistra.
«Appunto. E’ un mondo che va rispettato e non solo per quel legame storico».

Nel 1854 a Torino nacque il primo spaccio cooperativo, che doveva calmierare i prezzi per gli operai...
«Oggi il mondo cooperativo non incarna la felice diversità di una economia non di mercato della sognata società post-capitalista. In realtà le cooperative sono cresciute proprio inserendosi nel mercato, come quando si sono battute per avere un socio non prestatore d’opera ma finanziatore, o quando hanno dato forza, consorziandole, a tante piccole imprese. Il loro patrimonio etico non viene soltanto dalla storia come movimento solidaristico, ma è anche una componente essenziale del buon capitalismo».

Immagino in senso weberiano.
«E’ l’etica del capitalismo. Qualcuno là dentro deve aver pensato che “pecunia non olet” mai, considerando che il mercato non è propriamente un convitto di educande. Ed è stato seguito e assecondato. Ma così non ha tradito soltanto l’etica delle cooperative».

E’ appunto il succo dell’intervento di Prodi, che si sofferma anche sui rapporti preferenziali con la politica.
«Giusto. Ma in Italia questi rapporti preferenziali non hanno origine nella sinistra, ma nella storia di un’industria nata debole e cresciuta sotto l’ombrello del protezionismo di Stato».

Quindi, anche l’Iri dei tempi di Prodi.
«La nostra industria è nata attraverso le commesse di Stato, le concessioni, le tariffe ed è cresciuta avvalendosi di politiche pubbliche, come la rete autostradale negli Anni Cinquanta voluta dalla Fiat. L’industria era talmente consapevole di questa interazione con la politica, che un nuovo gruppo doveva avere il suo giornale. Anche l’Eni volle il «suo» organo di informazione, cioè “Il Giorno”... Ed è così che si crearono relazioni speciali tra industrie e gruppi politici: nel migliore dei casi avemmo il partito di Mediobanca; nel peggiore, di peggio».

E ora?
«Dopo oltre un secolo, il protezionismo è finito a Maastricht e con l’euro. L’industria italiana è debole, spaventata dal mercato globale: va aiutata e non assistita, promossa e non appoggiata sottobanco. E’ in questo nuovo contesto che va ridefinito il codice tra economia e politica: due mondi che non si possono ignorare e che devono interagire con assoluta trasparenza, proprio perché l’uno ha bisogno dell’altra».

Fin qui sta volando alto anche lei. I Verdi e Di Pietro, per parlare dell’oggi, chiedono al centrosinistra di darsi un codice etico. Che ne pensa?
«Naturalmente il centrosinistra deve essere il primo a darsi questo codice etico che auspico tra economia e politica. Mi aspetto che diventi un terreno di sana competizione e anche di vere e proprie regole giuridiche».

Qualcuno potrebbe usare questo terreno a scopi di bottega...
«Grazie al sistema proporzionale, potrebbe nascere una spinta a voler ridimensionare i Ds. Apprezzo la prudenza, che penso non sia soltanto tattica, di Francesco Rutelli, e non serve che ricordi quella usata da Prodi. Come è noto, sono un fautore del futuro partito democratico. Però spero che nessuno pensi che possa nascere sulle ceneri dei Ds e senza il patrimonio del riformismo socialista. Alla tendenza suicida del falò si aggiungerebbe anche questa...».

Parliamo di Fassino, presidente?
«Senta, sono stanco di sentire gente che mette le mani sul fuoco per lui e poi usa la bocca per sputare veleni. Ora basta. Di Fassino mi sono sempre fidato. Gli dissi, nel corso dell’estate, che avevo dei dubbi di congruità finanziaria sull’operazione Unipol. E quando parlò dei rentier dell’immobiliare come di figure non eccezionali in Italia, gli dissi che interpretavo la frase nel senso evangelico: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. E quindi di peccato si trattava. Che ora si voglia impiccare Fassino per quel passaggio tra la prima persona singolare e la seconda persona plurale, mi pare troppo...».

Si riferisce a quando Fassino disse a Consorte: «Ci siamo comprati una banca». E corresse: «No, ve la siete comprati voi».
«Insomma, si sostituisce l’elzeviro alla sostanza: dalle telefonate si capisce che Fassino non sta dando direttive, ma acquisendo informazioni».

Occhetto ha detto, di Fassino e D’Alema, che sono peggio di Craxi. Lei che l’ha conosciuto, che ne pensa?
«Craxi venne accusato di essere stato beneficiario di finanziamenti. Se Occhetto dice una cosa del genere, sembra credere che sia avvenuto anche in questo caso: si assume la responsabilità di affermazioni francamente avventate».

Crede che questa vicenda avrà esiti sulle elezioni a danno del centrosinistra?
«La febbre del falò può portare a effetti devastanti su un’opinione pubblica eccitata all’anti-politica. Il rischio è un ritorno dell’astensionismo da sinistra».

Dove si candiderà, ora non ci sono più i collegi maggioritari come quello di Grosseto?
«In Toscana. E vorrei con una candidatura ulivista».

Rimpiange il maggioritario?
«Credo che la proporzionale accentui la frammentazione della politica, dovremo arginare questa tendenza centrifuga».

E le riforme istituzionali?
«Il centrosinistra, in caso di vittoria, intende partire con una pregiudiziale: approvare una riforma del meccanismo di riforma. Deve essere sempre necessaria una maggioranza di due terzi, per modificare la Costituzione».
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